In questi giorni sono circolate diverse notizie, molte della quali fuorvianti, che parlano di tasse e criptovalute e di quanto dovremo pagare nel 2025 e nel 2026. In particolare si fa riferimento a un emendamento da parte della Lega che riguardava un abbassamento dell’aliquota dal 33 al 26% nel 2026, emendamento che però è stato ritirato, come si è scoperto ieri.
In soldoni, rispetto a quanto stabilito qualche mese fa, non è cambiato nulla. Quest’anno pagheremo come previsto ancora il 26%, come nel 2024, l’unica differenza è che non ci sarà più la soglia dei 2.000 euro.
Resta invariato dunque anche l’aumento al 33% nel 2026, che la Lega avrebbe voluto eliminare (mantenendo la tassazione al 26%), ma che come abbiamo visto è stato cancellato.
Il pasticcio delle aliquote all’italiana
Con questo ultimo colpo di scena, forse siamo arrivati a mettere la parola fine a una vicenda che ha avuto toni e atteggiamenti grotteschi. A partire dalla richiesta iniziale di una tassazione al 42%, che è stata poi portata al 33%, pur concedendo una finestra di due anni ancora al 26%, ovvero il 2024 e il 2025.
Un aumento che è apparso subito esagerato, anche perché maggiore di quanto si pagherebbe in banca con un ETF Spot, il cui valore è legato al prezzo della criptovaluta, la cui aliquota è del 26%.
Insomma dal prossimo anno converrà di più investire su un ETF in banca, dove oltre all’aliquota si pagano le commissioni, piuttosto che detenere BTC o altre crypto in un wallet o su un exchange.
Si tratta inoltre di una aliquota che risulta superiore a quella di molti Paesi europei. In Germania, ad esempio, le criptovalute detenute per più di un anno sono completamente esenti da tassazione sulle plusvalenze, favorendo così un approccio di investimento a lungo termine.
In Francia, l’aliquota standard per le plusvalenze sulle criptovalute è del 30%, ma si abbassa al 12,8% per chi opta per il regime fiscale tradizionale. Anche in Spagna e Portogallo le tasse risultano più competitive rispetto al 33% italiano, con aliquote che oscillano tra il 19% e il 26% a seconda dell’importo guadagnato.
Negli Stati Uniti, invece, la tassazione sulle criptovalute segue il modello del capital gain, con un’aliquota che varia dal 0% al 20% per chi mantiene gli asset per più di un anno, mentre per le plusvalenze a breve termine si applica l’aliquota ordinaria, che può arrivare fino al 37%, ma solo per chi supera i 500.000 dollari di guadagni annuali
Insomma, l’Italia ha scelto una linea fiscale tra le più pesanti a livello internazionale, rischiando di penalizzare ulteriormente il settore crypto e spingendo gli investitori verso soluzioni più convenienti all’estero.
Situazione disperata? Molto dipenderà da Trump
Eppure, siamo convinti che sia ancora presto per mettere la parola fine alla querelle delle tasse sulle crypto. Il panorama geopolitico sta rapidamente cambiando e nuovi venti liberisti cominciano a soffiare, a partire dagli Stati Uniti.
Trump ha speso gran parte della sua campagna elettorale parlando di Bitcoin e criptovalute, e dal suo arrivo molte cose sono già cambiate.
Il 20 gennaio, che coincide con la data dell’insediamento di Trump, si è dimesso il nemico pubblico delle crypto numero uno: Gary Gensler, il presidente della SEC.
Inoltre è stata recentemente cancellata la SAB 121. La Staff Accounting Bulletin n. 121 (SAB 121) era una direttiva emessa dalla Securities and Exchange Commission (SEC) che richiedeva alle aziende che custodivano criptovalute di registrare tali asset come passività nei loro bilanci. In pratica, le società finanziarie dovevano includere nel bilancio un passivo pari al valore delle criptovalute detenute per i clienti, oltre a un corrispondente asset.
Questa normativa era un ostacolo significativo per le istituzioni finanziarie interessate a offrire servizi di custodia per criptovalute, poiché aumentava i requisiti di capitale e i rischi associati.
Senza contare che Trump ha promesso di costituire una riserva nazionale di Bitcoin, al pari dell’oro e del petrolio.
Bitcoin come riserva nazionale: l’Europa trema o ride?
Curiosamente, proprio in questi giorni, Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea (BCE), ha dichiarato di non avere intenzione di includere Bitcoin nelle riserve dell’istituto.
Questa presa di posizione arriva in risposta alla proposta del governatore della Banca Nazionale Ceca, Aleš Michl, che ha suggerito di investire fino al 5% delle riserve nazionali in Bitcoin. La BCE ha espresso scetticismo riguardo all’idea, sottolineando che le riserve dovrebbero essere costituite da asset “liquidi, sicuri e protetti”, caratteristiche che, secondo la Lagarde, Bitcoin non possiede a causa della sua volatilità e del fatto che sia concentrato nella mani di pochi detentori.
“Sono certa che i Bitcoin non entreranno nelle riserve di nessuna delle banche centrali del Consiglio generale”, ha affermato nella conferenza stampa di ieri, dopo la decisione della BCE di abbassare di 0,25 punti i tassi di interesse.
Qualche buona notizia può arrivare dal MiCA?
Al momento il MiCA non impone un quadro fiscale unico, ma crea le condizioni affinché gli Stati membri possano convergere su una regolamentazione fiscale più uniforme e stringente.
L’UE potrebbe cogliere l’occasione per introdurre una tassazione comune sulle criptovalute, basata su regole condivise che eliminino le disparità tra i Paesi e rendano più semplice la riscossione delle imposte sulle transazioni digitali.
Si tratta però di una semplice speranza basata sul buonsenso, al momento non risulta nulla di concreto in questa direzione.
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